Ansia |
L'ansia è l'emozione che contraddistingue la risposta ai pericoli e ai rischi a cui gli esseri umani sono esposti. Nella prospettiva biologico-evolutiva l'ansia è considerata la principale reazione fisiologica e psicologica messa in atto dall'organismo a scopo adattativo ed evolutivo di fronte alle minacce portate dall'ambiente; in quella psicodinamica essa è il segnale di un pericolo proveniente dall'interno, in particolare dall'inconscio; infine, nell'ottica delle filosofie dell'esistenza l'ansia viene considerata come la «rivelazione emotiva» della condizione umana nel mondo, dunque la risposta a una minaccia insita nell'essere-così dell'Uomo. Visto attraverso la lente dell'evoluzione, non è difficile discernere il ruolo dell'ansia e della paura nel favorire la sopravvivenza. Il significato adattativo delle componenti biologiche e psicologiche dell'ansia/paura sembra palese: alcune di queste, in particolare la «finta morte» (riflesso di immobilizzazione) e la «fuga istintiva» (una serie di movimenti scomposti ma comunque finalizzati ad allontanarsi dallo stimolo nocivo) erano già stati messi in luce da E. Kretschmer (1923), che parlava a questo proposito di reazioni primitive ipobuliche-iponoiche con finalità difensiva, comune tra l'uomo e gli altri animali. Come corollario, lo spettro dei disturbi ansiosi (ansia patologica) è stato inquadrato come l'effetto di risposte esagerate o inadeguate di questo sistema omeostatico. Il parallelo tra l'ansia e il sistema immunitario viene da taluni evocato per aiutare a chiarire i rapporti tra ansia normale e patologica: così come il sistema immunitario può iperreagire (anafilassi), iporeagire (deficienza immunitaria), o reagire a stimoli innocui riconosciuti come patogeni (allergie, malattie autoimmuni), anche l'ansia può essere sproporzionata allo stimolo (panico), deficitaria (ipofobie, come nel disturbo antisociale di personalità), o rivolta a situazioni in sé inoffensive (fobie). Nell'ottica evolutiva, la gamma degli stimoli a cui reagisce il sistema omeostatico dell'ansia/paura è più ampia rispetto a quello che minaccia la sopravvivenza di un uomo del XXI secolo e corrisponde invece alle situazioni che minacciavano i nostri antenati. Ad esempio, le fobie degli animali riflettono l'ancestrale sistema di difesa dai predatori, l'ansia sociale il sistema dominanza-sottomissione. Si tratta, in ogni caso, di stimoli provenienti dall'esterno - ben diversi da quelli presi in esame per comprendere l'ansia dalla psicoanalisi e dalle filosofie dell'esistenza. Il tipo di risposta messo in atto dal nostro organismo, come già evidenziato da W. Cannon (1929), prevede una reazione di arousal che coinvolge risposte fisiologiche corporee (principalmente mediate dal sistema autonomo), esperienze soggettive (il vissuto dell'ansia) e un ventaglio di comportamenti difensivi. Dopo le risposte messe in luce da Kretschmer nei suoi studi pionieristici, il quadro è stato completato includendovi quattro tipi di reazione: lotta, fuga, congelamento, sottomissione. I comportamenti difensivi (ad es. la fuga) e le relative risposte fisiologiche corporee (ad es. l'aumento della frequenza cardiaca e respiratoria) si manifestano prima dell'esperienza soggettiva di ansia/paura: sono impaurito prima di sentire di avere paura. La «sensazione» dell'ansia (l'ansia in quanto esperienza psicologica soggettiva) entra in azione solo post hoc, quando ormai tutti i giochi sono fatti, quando cioè tutte le risposte fisiologiche e comportamentali si sono già dispiegate. La ragione di questa dissociazione tra reazione somatica e coscienza spiegano i neurobiologi (LeDoux, 1996) - dipende dal fatto che, specie nel caso di un'emozione così importante per la sopravvivenza come l'ansia/paura, il divenire cosciente può giungere troppo tardi. La neuroarchitettura del sistema dell'ansia/paura è strutturato conformemente: gli stimoli avvertiti come potenzialmente nocivi, dopo aver raggiunto il talamo prendono due vie distinte: una va direttamente all'amigdala, l'altra è una via indiretta che giunge all'amigdala passando attraverso la corteccia. La via diretta è ovviamente più breve e più rapida; questa via «rapida e sporca» consente di rispondere in maniera ultrarapida, ancor prima di aver riconosciuto pienamente lo stimolo. Ciò significa che le nostre reazioni emotive di ansia/paura possono essere basate su una rappresentazione non accurata dello stimolo (ad es. un bastone può essere preso per un serpente). Infatti, queste reazioni (che corrono lungo la via rapida e sporca) non sono mediate dalla corteccia cerebrale; solo quest'ultima, potendo fornire una valutazione più precisa dello stimolo, potrebbe prevenire reazioni inappropriate, come ad esempio le fobie. La risposta a stimoli nocivi, dunque, ha nell'immediato un carattere ultrarapido, ma proprio per questo impreciso e «inconscio». Questo sistema è appositamente costruito sulla spinta della selezione naturale per essere indotto a commettere errori nella direzione dei falsi positivi, onde evitare falsi negativi. Su questa lama di rasoio si gioca la probabilità che l'entelechia adattativa sconfini nella patologia ansiosa. Anche la psicoanalisi vede nell'ansia l'indice di un pericolo, ma in questo caso si tratterebbe di un pericolo proveniente dall'inconscio - o meglio: l'ansia sarebbe il segnale dell'imminente pericolo di essere sopraffatto dall'inconscio. S. Freud aveva in un primo tempo ritenuto l'ansia come il diffuso e indistinto senso di inquietudine che promana da un desiderio rimosso, oppure come il senso di tensione che risulta da un accumulo di pulsioni biologiche inibite (1894b); successivamente considerò l'ansia come il risultato di un conflitto tra desideri inconsci (di natura sessuale o aggressiva) provenienti dall'Es, e le minacce di punizione provenienti dal Super-io (1925c). Più generalmente, nell'ottica psicodinamica l'ansia è la manifestazione sintomatica di un conflitto che sottolinea l'incompatibilità tra un desiderio e un'ingiunzione morale, tra desiderio e realtà, o tra realtà interna e realtà esterna. Ma, al tempo stesso, l'ansia è anche un segnale adattativo che mette in moto le difese inconsce dell'Io, finalizzate ad allontanare dalla coscienza pulsioni, sentimenti e pensieri inaccettabili. In questo senso, sta al centro sia dello sviluppo «normale» (cioè della dialettica tra pulsioni biologiche individuali e vincoli morali e sociali), sia delle deviazioni patologiche. Nell'ambito dello sviluppo considerato normale, contraddistinto dalla dialettica tra pulsioni biologiche individuali e vincoli morali socialmente determinati, l'ansia contribuisce a indurre l'individuo ad adattarsi alle norme del gruppo sociale cui appartiene; il prodotto di scarto di questa frizione è noto come «disagio della civiltà» (Freud, 1929). Le caratteristiche fenomeniche dei diversi quadri psicopatologici dipendono dal tipo di meccanismi difensivi chiamati in causa dall'ansia. L'ansia è il motore comune di molteplici quadri psicopatologici a cui i diversi meccanismi di difesa imprimono caratteristiche specifiche. Ad esempio, se l'ansia mette in moto meccanismi di proiezione e spostamento, si potrà avere una fobia; se invece entrerà in gioco la conversione, un sintomo isterico; se l'isolamento e la formazione reattiva, una nevrosi ossessiva. Ma le fenomeniche cliniche sono anche funzione del tipo di ansia implicata. Nell'ottica psicodinamica si fa strada il pensiero che con il termine «ansia» siano designati fenomeni eterogenei. Esisterebbe, infatti, una gerarchia evolutiva dell'ansia, che spazia dai livelli più «maturi» (in cui si chiama «ansia» l'affetto legato alla colpa o ai tormenti di coscienza), a livelli «primitivi» (in cui questa parola è coniugata al sentirsi invasi da «oggetti persecutori», o disintegrati per la perdita dei propri confini), passando attraverso l'ansia di castrazione (o in generale di perdere la propria integrità fisica) e la paura di perdere l'amore di una persona significativa o la persona tout court (ansia di separazione). Questa tendenza a sfumare i confini (almeno quelli semantici) tra le varie forme di ansia, scatenate da diverse (e spesso incommensurabili) minacce all'integrità della persona, è rintracciabile anche nell'ambito degli studi filosofico-esistenziali. Ad esempio P. Tillich interpreta l'ansia come lo stato in cui l'essere è consapevole del suo possibile non essere e ne specifica tre forme fondamentali, in ciascuna delle quali l'esistenza è minacciata in rapporto alla possibilità dell'essere di affermare (o negare) se stesso: l'ansia di fronte alla morte, alla mancanza di senso, e alla colpa. Si tratta in ogni caso di ansie non patologiche, poiché l'ansia «nevrotica» sarebbe invece contraddistinta dal tentativo di «evitare il non essere evitando di essere». Su questa linea, G. Glas (2003) elenca sette forme di ansie esistenziali, o come preferisce chiamarle «basiche o fondamentali». La più grave è l'ansia relativa alla perdita della struttura, cioè della differenziazione (che è anche alla base del contatto vitale) tra Io e mondo, presente negli stati psicotici. Questo tipo di ansia dovrebbe essere tenuto distinto da quella che si prova di fronte alla perdita di significato degli oggetti mondani, ovvero all'ansia che accompagna la perplessità che permea gli stati prepsicotici. Un altro tipo di ansia si manifesta nei confronti dell'esistenza in quanto tale: una forma di disgusto suscitato dalla fatticità, cioè dal mondo, dal Sé e dal corpo in cui siamo gettati - che sarebbe caratteristica dell'anoressia mentale. Inoltre, l'ansia di fronte alla propria umana vulnerabilità, relativa cioè alla mancanza di sicurezza e protezione fisica; l'ansia di fronte alla propria esistenza sempre in bilico sulla propria decadenza. Quest'ansia si manifesta nelle fobie e, al massimo grado, nel panico. Ci sarebbe, poi, l'ansia relativa al sentirsi isolati dagli altri esseri umani, in cui prevale il sentimento tormentoso di distanza e di disconnessione affettiva, cifra psicopatologica della condizione melanconica. Un posto centrale spetta all'ansia generata dall'incapacità a scegliere, cioè l'ansia di fronte alla propria libertà; questo tipo di ansia è esasperato nella condizione ossessiva. Infine, un ultimo tipo di ansia, quella di fronte alla morte, che coincide con lo sconforto per l'assurdità della vita, cioè per la sua finitudine (e in ultima analisi mancanza di senso), completa questa silloge che sottolinea la polisemia e anche l'ambiguità del termine. Che cosa accomuna questi distinti tipi di ansia? Sia nella prospettiva psicodinamica, sia in quella ispirata alle filosofie dell'esistenza, «ansia» sembra essere un termine generico per designare qualunque forma di dolore o di turbamento psichico di fronte a una minaccia all'integrità della propria umana esistenza. Nell'ottica biologico-evolutiva, il termine (nel suo stretto rapporto con «paura») indica la reazione emotiva di fronte a uno stimolo percepito come una minaccia concreta per la propria sopravvivenza. Che cosa ci autorizza a usare la stessa parola per designare esperienze così diverse tra loro ? La risposta è semplice: si tratta in tutti casi di un'emozione suscitata dalla presenza di uno «stimolo» concepito come minaccioso. Si parla di ansia quando si tenta di descrivere la reazione di fronte a un qualche tipo di minaccia - sia che essa provenga dall'esterno o dall'interno, sia essa rivolta all'integrità fisica, a quella psicologica o morale. Ma il tipo di stimolo in oggetto, o per meglio dire l'oggetto «causale» o intenzionale (a che cosa è attenta l'ansia, anche se questo oggetto non affiora oltre la soglia della coscienza esplicita), in ogni tipo di ansia descritto da ciascuna di queste tradizioni di pensiero, è diverso: per uno psicologo evoluzionista può trattarsi delle vestigia di una paura ancestrale, per uno psicoanalista di una pulsione ritenuta immorale, per un filosofo dell'esistenza del peso della responsabilità. E, a prima vista, è diversa anche la qualità della reazione emotiva in gioco: altra cosa la paura di fronte a un rettile, altra l'esperienza terrifica della perdita dei propri confini, altra ancora l'angoscia per la finitudine dell'esistenza. Prima di azzardare qualunque interpretazione o spiegazione di un fenomeno, dobbiamo fornirne un'accurata descrizione; prima di tentare una tale descrizione del fenomeno ansia è necessario fornire alcune precisazioni. La prima è che, in quanto emozione, l'ansia è uno stato corporeo funzionale che produce e motiva certi movimenti. L'etimologia della parola «emozione» (che deriva da ex-movere) dev'essere presa alla lettera. Questa teoria, che accomuna tanto gli psicologi evolutivi quanto alcuni feno-menologi, vede nelle emozioni forze dinamiche che guidano gli individui nel loro rapporto con il mondo. Le emozioni sono fenomeni incarnati, e come tali non riducibili a stati mentali, né a stati del corpo-oggetto, e cioè a semplici meccanismi fisiologici come i cambiamenti viscerali mediati dal sistema autonomo. Questa concezione delle emozioni in quanto stati del corpo che motivano certe azioni rifiuta, altresì, il focus esclusivo che certe teorie delle emozioni collimano sull'espressione delle emozioni stesse in quanto meccanismi di comunicazione atti a preservare la specie; in quest'ottica, ad esempio, digrignare i denti non servirebbe a prepararsi all'azione di mordere, quanto invece a scoraggiare l'avversario ed evitare l'escalation verso una concreta aggressione fisica. La teoria delle emozioni qua motivazione a un movimento prende in esame il corpo nella sua totalità, in particolare il corpo in quanto globalità cinetica-cinestetica. La seconda precisazione riguarda la distinzione tra due emozioni spesso considerate gemelle: l'ansia e la paura. La paura è la risposta a un fenomeno che è riconosciuto come sua motivazione; non così per l'ansia. Detto altrimenti: la paura è un'esperienza intenzionale, nel senso che la persona che ha paura è attenta a un fenomeno di cui ha paura, mentre l'ansia è un'esperienza non intenzionale. Per questa distinzione siamo debitori ai filosofi dell'esistenza (primo fra tutti Kierkegaard) e alla fenomenologia. Q. Smith (1989), rifacendosi a Scheler e Heidegger, riassume questa lunga tradizione giustapponendo «umori» ad «affetti»: i primi hanno carattere globale, non essendo focalizzati su uno specifico oggetto, mentre i secondi prendono di mira aspetti particolari del mondo. Per questo motivo, mentre gli umori (come l'ansia) rivelano l'essere nel mondo dell'uomo come globalità, non così gli affetti (come la paura). Su un piano pragmatico, non è difficile cogliere la differenza: se ho paura di qualcosa, per rassicurarmi basta che mi allontani da ciò di cui ho paura; se sono in ansia, non serve che mi allontani, perché, fintanto che non rendo esplicito il perché della mia ansia, essa mi seguirà ovunque. J.-P. Sartre (1943) fornisce una distinzione che completa la precedente: ansia è l'apprendere il proprio Sé in quanto libero, cioè prendere atto che il nulla scivola tra il mio Sé, il mio passato e il mio futuro, consegnandomi alla necessità di scegliere me stesso liberamente, senza che alcunché possa garantire la validità della mia scelta. Paura, invece, è apprendere la mia possibilità in quanto trascesa dalla libertà dell'altro, senza poter far nulla per limitare la libertà dell'altro. Le differenze tra ansia e paura non si limitano a questo, come mostra una descrizione accurata delle due emozioni. Una tale descrizione richiede però una sensibilità che tenga conto della globalità dei movimenti avvertiti da colui che prova un'emozione. Smith fornisce una traccia per una descrizione fenomenologica dei movimenti dell'ansia e della paura (oltre che di quelli di molteplici altre emozioni): i qualia dell'ansia e della paura comprendono da un lato la sensazione di un flusso direzionale che aderisce all'Io (al corpo vissuto), e dall'altro un corrispondente movimento del mondo circostante (dello spazio vissuto). Il flusso del movimento che aderisce all'Io nella paura ha la direzione dell'essere portato ali'indietro, lontano da ciò che mi minaccia. In questo ritirarmi, allo stesso tempo mi ritraggo in me stesso, cioè nell’allontanarmi divengo più piccolo. L'ansia non è vissuta come un «ritirarsi da»; la persona in ansia non si sente portata all'indietro. Piuttosto, si sente sospesa sopra un abisso interiore, un'interiorità senza fondo. Mentre quando ho paura sento che il mio Io ha un fondo che si ritira con me per mettersi al riparo da ciò che mi minaccia, nell'ansia l'Io è vissuto come privo di fondo, e per questo il movimento che avverto è un precario essere-sospeso sopra l'abisso del mio Io. Nelle forme più lievi, come nell'inquietudine o nel nervosismo, non si manifesta ancora questa sensazione di assenza di un fondo; invece, ciò che si sente è il traballare del fondamento del mio Io. Più intensa è l'ansia, più profondo è l'abisso in cui sento che sto per sprofondare. Tuttavia, l'ansia non è precisamente un sentirsi sprofondare, quanto il sentirsi sospeso sopra la possibilità di sprofondare. Per questo l'ansia non tocca mai il fondo. Anche il tipo di movimento dell'Io-corpo (non solo la sua direzione) distingue l'ansia dalla paura. Infatti, la paura nel suo arretrare si muove con uno scatto improvviso; l'ansia nel suo essere sospesa è un tremore, oscilla e sussulta come per una scossa di terremoto. Contestualmente all'Io, nelle emozioni anche il mondo è vissuto in movimento. Nella paura, mentre io mi ritiro il mondo mi viene incontro in modo minaccioso. L'oggetto che mi minaccia, mentre io mi ritraggo in me stesso divenendo sempre più minuscolo, sembra invadere tutto il mio campo percettivo, dominandolo. Nell'ansia, il mondo con ogni suo appiglio si ritrae da me, diviene vacuo, rarefatto; non si tratta, però, di un vuoto aperto alla possibilità del mio movimento, che mi indica una direzione, bensì di un vuoto senza direzione. Sento attorno a me un vuoto omogeneo e distante, mentre la terra su cui poggio i piedi si fa sottile come un'esile crosta di ghiaccio, vacilla fino a spalancarsi in una voragine insondabile sotto i miei piedi. Nel panico, che è fenomeno diverso sia dalla paura sia dall'ansia, ma che forse rappresenta la forma estrema ma qualitativamente differente di entrambe, l'aggressione viene da infiniti punti diversi; ogni singolo luogo dello spazio è una minaccia. Il mondo nella sua globalità è un cerchio che si chiude verso il centro che occupo, senza darmi alcun punto di riferimento, negandomi al contempo ogni appiglio insieme a ogni via d'uscita. Il mio Io si muove scompostamente in ogni direzione, dissolvendosi, abdicando ancor prima di divenire preda di ciò che lo minaccia; oppure si blocca paralizzandosi, ma senza ritrarsi a sufficienza, tanto da restare alla mercé del suo globale aggressore. L'analisi del corpo e dello spazio vissuto nell'ansia mette a nudo la discontinuità fenomenologica tra questa e un'altra emozione ad essa spesso equiparata: l'angoscia. La parola deriva dal latino angustia, sostantivo astratto derivato da angmtus (stretto) e imparentato con angor (stretta, soffocamento, oppressione) e angulus (angolo, cantuccio), e in ultima analisi con il verbo ango (stringere, serrare). A fronte di una così esplicita etimologia, non si capisce perché si debba insistere (almeno nelle lingue che come l'italiano dispongono di due voci distinte) sulla presunta sinonimia tra «ansia» e «angoscia». Lo spazio vissuto nell'angoscia ha la forma di un angolo in cui sono stretto, serrato; il mondo si restringe attorno a me opprimendomi e impedendomi ogni movimento, in qualunque direzione, ad eccezione di un indietreggiamento che, a causa dell'ostacolo che trovo alle mie spalle, prende la forma di un ulteriore restringimento su me stesso. Il mio corpo immobilizzato è costretto a subire passivamente un'azione esterna che lo chiude su se stesso, strozzandolo. La temporalità dell'angoscia riflette questa configurazione dello spazio e del corpo. Mentre la temporalità dell'ansia è ante festum, poiché (in quanto sospensione) l'ansia c'è prima che qualcosa accada, sebbene nell'imminenza di qualcosa che sta per accadere, nel tempo dell'angoscia io sono ciò che sono stato. La temporalità dell'angoscia è post festum, il tempo mi stringe un cerchio attorno, e facendomi indietreggiare, ovvero rinserrandomi progressivamente, mi isola dal futuro, confinandomi in un presente eterno che ricalca il passato. ' l'utto questo può essere considerato una coreografia delle emozioni che chiamiamo paura, ansia, panico e angoscia, poiché, come una coreografia, consiste nel disegno dei movimenti di una persona e dello scenario in cui questi movimenti hanno luogo. Questa coreografia delle emozioni fa capo a un'analisi dell'esperienza soggettiva dei propri movimenti intenzionali (non necessariamente «reali») e del relativo fluire del mondo ambiente. E legittimo ipotizzare che a distinte configurazioni del corpo vissuto e dello spazio vissuto corrispondano diverse configurazioni cerebrali. Le differenze qualitative tra paura, ansia, panico e angoscia mostrano che può essere del tutto ingiustificato, almeno sotto il profilo della specificità dei qualia di tali emozioni (cioè sotto il profilo fenomenologico), equiparare l'ansia alla paura e all'angoscia, e ancor di più queste emozioni ad altre emozioni spiacevoli, perturbanti e dolorose quali ad esempio quelle suscitate dalla perdita dei propri confini o dalla fatticità della propria esistenza o dell'esistenza umana in genere (tendenza questa che invece abbiamo visto in atto sia nella psicopatologia a orientamento psicodinamico sia in quella di ispirazione esistenziale). Ancor più dubbio può sembrare l'equiparare la paura all'ansia nelle ricerche di ispirazione biologico-etologica che fanno riferimento ai cosiddetti «modelli animali» dell'ansia umana. E possibile, invece, che la direzione dell'indagine in questo campo debba essere completamente inversa, andando alla ricerca della specificità qualitativa di ciascun tipo di emozione, prima di accomunarle in vista di un'improbabile reductio ad unum o ad panca nell'illusione di gettare luce così sui momenti patogenetici nell'esistenza umana. Solo così possiamo lasciare a ogni uomo, e a ogni epoca, la sua «ansia», come punto di partenza per tentare di comprendere la sua esistenza. GIOVANNI STANGHELLINI |